giovedì 27 febbraio 2014

SNAKKY di Matteo Bigarella



Giorgio e Piero erano rimasti soli in ufficio. C'era del lavoro arretrato da finire al più presto e il direttore lo aveva affidato a loro.
Di tanto in tanto Piero si alzava per andare in bagno. Aveva la prostata ridotta a un colabrodo.
"Un vecchio come te non dovrebbe fare gli straordinari di notte," disse Giorgio quando il collega tornò dal bagno.
Giorgio alzò una mano a coppa vicino all'orecchio: "Come?"
"Ho detto che un vecchio come te non dovrebbe fare gli straordinari di notte."
"Già."
Nell'ufficio scese di nuovo il silenzio.
Giorgio sbadigliò rumorosamente. Dal suo angolino il vecchio continuava a battere sui tasti della calcolatrice, il naso che quasi sfiorava i registri contabili.
"Quando vai in pensione?" chiese Giorgio tanto per fare un po' di conversazione.
Piero non rispose.
Giorgio appallottolò un foglio e lo lanciò contro il vecchio, sfiorandogli la pelata di pochi millimetri. Il vecchio trasalì e alzò la testa.
"Ti ho chiesto quando vai in pensione."
"Tra due mesi," disse Piero, la testa già attratta magneticamente verso il basso.
Giorgio tornò al lavoro, ma dopo pochi minuti si fermò. I numeri gli danzavano davanti agli occhi e non riusciva a concentrarsi. Basta. Si alzò e inarcò la schiena per sciogliere i muscoli.
"Io faccio una pausa," disse passando davanti alla scrivania di Piero. "Vuoi qualcosa da bere?"
Nessuna risposta.
Sordo e piscione, pensò Giorgio. Se devo diventare così, uccidetemi prima.
***
Ecco un'altra di quelle creature ripugnanti.
Facendo uno sforzo, Snakky riusciva a tollerare la vista di quei corpi rachitici e sgraziati, e persino la tonda escrescenza carnosa che usavano per emettere i loro versi ributtanti.
Quello che davvero non sopportava erano le propaggini che si dipanavano dai loro corpi, propaggini che terminavano in ramificazioni adunche in costante movimento.
La creatura si avvicinò con l'andatura assurda tipica della propria razza.
Fa' che non mi tocchi, pregò Snakky. Fa' che non mi tocchi.
La preghiera rimase inascoltata. La creatura posò le sue appendici untuose sul vetro, gli incomprensibili organi visivi a scrutare nelle viscere di Snakky.
L'impianto di refrigerazione di Snakky ronzò di disgusto.
La creatura inserì alcune monete nella fessura e digitò sulla pulsantiera il codice del prodotto. Una lattina di tè alla pesca, sospinta in avanti dai ganci a spirale, cadde con fragore nel cestello.
La creatura aprì lo sportello e ghermì la lattina.
Snakky si sentì violata. In un cieco impulso di sopravvivenza, senza nemmeno rendersene conto, richiuse lo sportello.
Il guaito di dolore della creatura le fece accapponare i chip. L'orribile essere provò a indietreggiare, a sfilare la propaggine dalla morsa, ma Snakky strinse più forte.
Oltre a stringere, iniziò a tirare verso di sé.
Dentro di sé.
Gli urli della creatura divennero più alti. Centimetro dopo centimetro, si ritrovò inesorabilmente schiacciata contro la lucida superficie di Snakky. La piccola escrescenza in cima al suo corpo si accartocciò con un scricchiolio umido. Uno spruzzo di liquido rosso lordò il vetro antisfondamento.
Snakky, in trance, masticava con ingranaggi d'acciaio.
La creatura smise di lamentarsi e di lottare, mentre il suo corpo maciullato e contorto spariva all'interno di Snakky. Una propaggine inferiore, in preda agli spasmi, tamburellò sulla moquette per qualche secondo. Poi Snakky la risucchiò come uno spaghetto.
Quando tutto fu finito, Snakky si rese conto che la carne di quegli esseri deformi era saporita. E che ne voleva ancora.
Per sua fortuna, sapeva dove procurarsela.
Con lentezza, prese a muoversi verso l'ascensore.
***
Piero era furioso. Dove diavolo si era cacciato Giorgio?
Lo stava cercando da mezz'ora. Aveva setacciato tutti i piani. Aveva guardato negli uffici, in sala mensa, persino nel bagno dei disabili, sicuro com'era di trovarlo placidamente posato a un lavandino, intento a fumare una sigaretta in attesa che il vecchio Piero sbrigasse anche il suo lavoro.
Forse è andato a casa a dormire. O peggio, a fare baldoria con gli amici.
Un crampo gli azzannò lo stomaco. La rabbia non faceva bene alla sua ulcera.
Meglio calmarsi. Tornare al lavoro, ecco quello che doveva fare. Finire le pratiche che torreggiavano sulla sua scrivania, fiondarsi a letto per qualche ora di sonno ristoratore e poi, l'indomani, riferire al direttore dell'inqualificabile comportamento di Giorgio. Il licenziamento era garantito.
Rinfrancato da quell'idea, Piero premette il tasto di chiamata dell'ascensore.
Mentre aspettava, si guardò attorno. Immerso nella penombra, l'ufficio appariva ancor più deprimente. La pianta di ficus dal colorito malsano, il cestino traboccante di bicchierini di plastica, le macchinette addossate alla parete...
Piero ebbe l'impressione che ci fosse qualcosa di stonato, qualcosa fuori posto. Guardò meglio.
La macchina degli snack non era affiancata a quella del caffè, come al solito, ma spostata di una ventina di centimetri. Era anche leggermente inclinata verso destra, e il vetro, chiazzato di macchie rossastre, guardava verso l'ascensore.
Piero si grattò la testa perplesso. Chi poteva averla spostata? Che fosse uno scherzo di Giorgio?
Da quel ragazzo c'era da aspettarsi di tutto.
Fece un passo in avanti, deciso a rimetterla a posto, e in quel momento realizzò che la camminata gli aveva messo sete.
Dall'interno della macchinetta, una fila di Pepsi sembrava chiamarlo con voce tentatrice.
Il suo medico gli aveva vietato di bere bevande gassate, ma Piero decise di fare uno strappo alla regola. Non sarà certo una Pepsi ad ammazzarmi, pensò, e infilò cinquanta centesimi nella fessura.

martedì 25 febbraio 2014

I SOCCORRITORI di Peppe Murro



In un anno era sprofondato solo dalla cintola alla spalla. Si sentiva fortunato per questo.
Una strana luce verde lampeggiava fiocamente da quello che restava del suo casco. Pensò che in fondo era una morte orribile essere inghiottito di colpo dal terreno,  appena messo piede su quel pianeta; non si meravigliò neppure che questo ancora non fosse del tutto compiuto, era troppo contento di essere ancora vivo.
Vivo? E per quanto tempo ancora? Perché tardavano i suoi soccorritori?
Volse la testa in alto per scrutare un qualche segno… niente, solo un vuoto di stelle, un deserto tormentoso di luci silenziose !
Si immergeva lentamente, quel liquame nerastro sembrava divorarlo con lentezza, quasi a rifiutarlo per lo schifo. E ne era felice.
Guardò di nuovo in alto: lì, dietro la nube di Oort  forse qualche altro equipaggio era in viaggio per soccorrerlo, certamente avrebbero mandato qualcuno a salvarlo… era troppo importante quanto aveva da dire… quello che aveva scoperto e registrato…
Da quanto tempo era caduto in quella melma che lo andava risucchiando con tanta esasperante lentezza non lo ricordava esattamente, o forse era meglio non chiederselo. Sapeva però che era tanto, da quando aveva lanciato il suo myday.
Quanta paura in quel grido d’aiuto, gli sembrava che il cuore gli fosse d’improvviso scoppiato in un mare di terrore. Ma sarebbero arrivati, era troppo stupido temere per sé e la sua vita… anche se non temeva solo per sé, sentiva che era troppo importante quanto doveva comunicare.
Di colpo uno scossone e fu immerso fino alla bocca, non avrebbe più potuto neppure urlare, non avrebbe più potuto neppure guardare le stelle.
Le stelle, fredde e tremanti come gocce di pioggia, e lui lì, a percorrere quelle strade d’infinito… anche un pensiero del genere, così smaccatamente antiquato, gli dava sensazioni ambigue… che se ne faceva di tanto romanticismo se stava per morire?! aveva solo bisogno di soccorso. Immediato.
E quando sarebbero arrivati avrebbe anche sorriso di tutte le sue paure, della melma, del suo tremare. Ora, però, era davvero solo, conficcato in quel pianeta vorace che gli impediva anche di guardare il cielo, che gli consentiva appena di vedere un tenue orizzonte, piatto ed ostile come tutti gli orizzonti della notte.
 Sarebbero arrivati i suoi soccorritori, dovevano arrivare… si sentì quasi orgoglioso della responsabilità di quanto aveva scoperto, pensò che era essenziale che tutti sapessero… in fondo si sentiva come il messaggero di una nuova redenzione, e forse lo era per davvero.
S’accorse stranamente  d’aver freddo, gli sembrò quasi di essere sprofondato in maniera impercettibile… lui, un messaggero di salvezza inchiodato in una melma assassina senza poter fare altro che guardare un filo d’orizzonte.
Sarebbero arrivati, certo, lo avrebbero salvato, avrebbe detto a tutti che… un gorgoglio minaccioso lo sorprese, come se qualcosa ruttasse per ingoiarlo meglio, ebbe paura… arrivano, devono arrivare, devo stare calmo, fermo…
Provò disperatamente a storcere gli occhi in cerca di una scia nel cielo, vide a malapena una linea opalescente sopra quella massa oscura della melma… sarebbero arrivati, lo avrebbero salvato…

E come per miracolo si accorse che in quel corpo sepolto come in un sudario qualcosa si muoveva, riusciva a muovere le dita… aveva quasi dimenticato di avere ancora stretto nella mano l’apparecchio di soccorso… forse ce la faccio a premere ancora il pulsante… forse ci riesco, e intanto sentiva come gocce di sudore che gli scendevano dalla fronte a chiudergli gli occhi, percepì un brivido in tutto il corpo mentre cercava di sentire il dito che premeva il pulsante, gli sembrò di averlo premuto, respirò come fosse un sospiro… forse era andato quel messaggio, sarebbero arrivati… un altro gorgoglio sordo e crudele e gli parve di essere risollevato in alto… no, melma, ora vedeva quasi solo melma, e quel chiarore lontano e fioco che gli parlava di salvezza. Fermo, doveva stare fermo.
Per un qualche miracolo magari aveva  mandato la sua ultima disperata richiesta di aiuto, forse c’era riuscito… dovevano salvarlo, dovevano farlo per lui e per l’umanità…
Gli giunse all’improvviso da lontano la risposta… e mai un’abitudine gli sembrò più feroce e disumana ”gentile cliente, siamo lieti che abbia scelto l’Agenzia Soccorsi Planetari, prema 1 se desidera conoscere le nostre ultime vantaggiose proposte, 2 se…
Il gelo in ogni pensiero, se avesse potuto avrebbe urlato, poi gli venne da dentro un singhiozzo che sapeva di riso e di disperazione… operatori momentaneamente occupati, rimanga in linea per non perdere la priorità acquisita… se questa fosse solo la sua farsa o la tragedia di tutti non seppe dirlo…
Chiuse gli occhi ridendo, disperatamente… ridendo, solo, mentre la melma gli copriva ogni orizzonte.

domenica 23 febbraio 2014

CARNE FRESCA PER JUAN TORRES di Giuseppe Novellino

 
  Alamito

     Adagiata nel fondovalle pietroso, non era altro che un insieme di costruzioni riunite intorno all’antica chiesetta spagnola. Il sole faceva risaltare alcune casupole bianche che si mischiavano con altre in legno e pietra porosa.
     - E quella sarebbe una città? – disse Aleardo Pink, sputando un bolo di tabacco. Scorreva del sangue messicano, nelle sue vene. Eppure non aveva il cuore tenero per i mangiafagioli. Suo padre era stato un combattente per l’indipendenza del Texas, aveva sposato una bella contadina di Matamoros che gli aveva dato lui come unico figlio.
     - Hai ragione. Se il Texas assomiglia a una vecchia baldracca seduta, quello è il buco del culo – convenne Keith Whitcomb. Si era tolto il largo cappello e si asciugava la fronte madida. I suoi capelli rossicci si accompagnavano agli occhi azzurri: il classico uomo venuto dall’Est, in cerca di fortuna.
     I due, fermi sui loro cavalli in cima all’arida collina, osservavano l’agglomerato di case. Nel cielo, senza una nuvola, volteggiavano due avvoltoi. Di sicuro stavano individuando qualche carogna da spartirsi, ma dovevano essere intimoriti dagli abitanti della cittadina.
     - Sei sicuro che Juan Torres si trovi laggiù?
     Keith si rimise il cappello. – Adesso che hai visto il posto ti tornano i dubbi, non è vero?
     - Umana debolezza...
     - Eppure le informazioni su Juan sono attendibili. Se lui ha fatto sosta laggiù, ce lo troveremo; se se ne è già andato, qualcuno ci dirà dove.
     - Mille dollari a testa, se non mi fanno difetto le tabelline.
     - Certo, amico, un bel compenso. – E gli lanciò un’occhiata di sbieco. Era infatti un prezzo ragionevole per assicurare alla giustizia un balordo ricercato come Juan Torres: una mezza tacca di bandito che aveva contribuito a fare un bel po’ di casino dalle parti di Lubbock.
     - A meno che il mangiafagioli ci abbia fatto fessi… e non sia passato di qui.
     - Dubito. Ci sono solo rocce e aride colline tra il Pecos e il confine con il Messico. Di sicuro sarà passato da Alamito, se non altro per fare rifornimento d’acqua e sciacquarsi la gola con un po’ di tequila.
     Gli avvoltoi si erano eclissati dietro una cresta.
     - Okay, andiamo.
     Cominciarono a scendere lungo il fianco sassoso della montagnola.
     Quando furono alle porte della cittadina, si resero conto che c’era qualcosa di sbagliato. La via principale, che cominciava tra due file di bianche casupole in muratura, appariva del tutto deserta. Strano, non era ancora l’ora della siesta.
     Keith e Aleardo misero i loro cavalli al passo.
     - C’è una quiete insolita in questo buco – disse il primo.
     Poi giunse alle loro orecchie quello strano suono: un battere di legno contro legno, costante ma senza ritmo. Forse un’imposta che continuava a sbattere. Tuttavia non era possibile senza un alito di brezza. Il sole di quasi mezzogiorno dardeggiava implacabile.
     - Qualcuno c’è, dopotutto, in questa fetida cittadina di confine – disse Aleardo.
     Infatti un ragazzino, seduto sulla soglia di casa sua, batteva continuamente un nodoso bastone contro la pancia di un barilotto vuoto.
     - Spiegato il rumore – convenne Keith.
     Lo osservarono entrambi: teneva il capo chino e lo dondolava come avrebbe fatto uno scimpanzé. E quel suo picchiare era alquanto sinistro.
     Intanto erano arrivati in prossimità del saloon. I vetri della finestra erano infranti. La scritta “Dillon’s” pendeva tutta storta, dando un senso di desolazione e di abbandono.
     Smontarono.
     - Ehi, guarda come cammina – avvertì Aleardo.
     Il ragazzo stava attraversando la strada, in diagonale, e veniva verso di loro.
     - Sembra una marionetta – osservò Keith, spingendo il cappello sulla nuca.
     Quello veniva verso di loro ma il suo sguardo era perso nel vuoto
     Lo lasciarono avvicinarsi.
     - Che vuoi, ragazzo? – disse Aleardo.
     Il volto del giovane era pallido, con due occhiaie scure. Dalla bocca semiaperta usciva un rigagnolo di bava verdastra.
     - Oddio! – esclamò il mezzo messicano.
     Poi il ragazzino gli si avventò contro e lo addentò su una guancia.
     Keith estrasse la pistola e lo colpì in una coscia. Quello lasciò la presa e vacillò per un attimo, ma poi si scagliò ancora contro Aleardo.
     - Toglimi questo animale di dosso! – sbraitò quest’ultimo.
     Keith sparò di nuovo, lo beccò in pieno torace. Ma quello continuava nella sua aggressione. Allora gli fece esplodere un colpo in testa. Il ragazzo stramazzò al suolo e non si mosse più.
     Aleardo imprecò. Il sangue gli sgorgava da una mano e dalla mascella.
     - Vieni, entriamo nel locale – disse Keih, la pistola in pugno.
     Una porta, dall’altra parte della strada, fu spalancata.
     Dalla vecchia chiesetta spagnola venne uno sgangherato scampanio.
     L’interno era nella penombra e nel silenzio. Vi stagnava un odore immondo. Sedie e tavoli erano rovesciati, come se ci fosse stata una zuffa colossale.
     - Per la miseria! – fece Keith.
     Poi videro Juan Torres, il ricercato. Era spuntato da dietro il bancone. Lo riconobbero subito, perché un raggio di sole, entrando dalla finestra, illuminava la sua faccia. Ma era anche quella di un cadavere.
     Rimasero immobili, come paralizzati, osservando il loro uomo scavalcare il bancone con movimenti del tutto scoordinati. Emetteva rauchi suoni animaleschi. Poi si lanciò su di loro.
     Anche Aleardo estrasse la Colt ed entrambi fecero fuoco. Ma quello avanzava come se fosse colpito da sassolini, inciampava nelle sedie e subito si raddrizzava, venendo verso di loro con le braccia protese in avanti.
    - Alla testa! – grido Keith. – Spara alla testa.
    Un colpo sulla nuca fece vacillare Juan Torres, che stramazzò sopra un tavolo sbilenco.
    - Via di qui! – ordinò Keith.
    Ma fuori li aspettava un’altra sorpresa.
    Un capannello di gente circondava i due cavalli, che nitrivano e scalpitavano in preda al terrore.
    Keith, riavutosi per primo dalla sorpresa, balzò in sella al suo, mentre Aleardo rimase con un piede nella staffa. Una donna anziana, vestita di nero, e un giovanotto scalzo gli furono addosso. Lei lo azzannò al collo; lui addentò il cranio.
    Il cavallo di Aleardo si alzò sulle zampe posteriori, emise un nitrito di terrore e prese a correre verso la chiesetta, trascinandosi dietro il corpo di Aleardo con attaccati i due assalitori.
    Keith cominciava a capire l’allucinante realtà in cui era piombato. Estrasse la pistola e fece fuoco verso quella marmaglia, mirando alla testa. E prima di spronare il suo cavallo verso la parte da cui era entrato in città, sentì un dolore acuto a un polpaccio. Un tizio dalla pancia prominente, con la stella di sceriffo ben visibile sulla camicia, gli aveva dato un morso bestiale. Gli sparò in fronte, e via.
     Nel galoppare verso l’uscita della cittadina, travolse una giovane donna dai sciolti capelli biondi.
     Risalì il versante da cui erano discesi, lui e il suo compagno, poco prima. La campana continuava a far risuonare i suoi stonati rintocchi. E quando fu sulla cresta brulla della collina, Keith Withcomb si chinò sul collo del suo cavallo. Il polpaccio sanguinava e gli procurava dolori lancinanti.
   Prima di  cadere su un lato, privo di vita, vide i due avvoltoi volare ancora nel cielo luminoso del mezzogiorno. Ma ebbe il fuggevole pensiero che non avrebbero cercato il suo corpo.
  


venerdì 21 febbraio 2014

IL PAESE INCANTATO di Fabio Calabrese

    

Lo sguardo di Antonio era andato a cadere sulla piccola libreria che si trovava nella camera da letto, proprio dove si scorgevano i dorsi di alcuni libri che risaltavano più scuri sugli altri, perché rivestiti di una sovraccoperta di robusta carta blu opaca. Niente di speciale, li aveva letti e riletti tutti più volte e oramai erano lì da anni a ingiallire e a ricoprirsi di polvere. Quei libri erano quelli che possedeva da più tempo, era stato lui stesso a mettere quelle sovraccoperte, poi… poi non aveva avuto più tempo e voglia di farlo. Ora quella pesante carta oleata bluastra, che si usava ad esempio per foderare i cassetti, non era nemmeno più in commercio, sostituita da involucri più frivoli.
Bizzarro, ora che aveva tempo, non aveva più la forza di fare nulla tranne che giacere tranquillo nella penombra.
Antonio non sapeva se sarebbe riuscito a riprendere le forze, sapeva che i medici l’avevano dimesso dall’ospedale perché non potevano fare niente per lui, l’avevano rimandato a casa a morire, ma tutto questo era successo più di una settimana prima, e almeno per ora era sempre debole e allettato ma almeno lucido e vivo, in qualche modo era riuscito almeno per un po’ a ingannare la Grigia Mietitrice.
L’ingresso di Manuela nella stanza interruppe il corso dei suoi pensieri.
“Ciao, papà”, disse la donna, “io esco per andare a fare la spesa. Stai bene, ti serve qualcosa?”
“Sto bene, grazie”, rispose Antonio, “vai pure tranquilla, non mi serve nulla”.
Sua figlia uscì chiudendosi la porta alle spalle, e dopo poco Antonio udì lo scalpiccio dei suoi passi giù per le scale.
“Brava ragazza, Manuela”, venne da pensare ad Antonio; non riusciva a pensare a lei se non come una ragazza, anche se aveva due figli già adolescenti.
Antonio aveva due figli, Manuela e Marco: il maschio si era trasferito per lavoro in una città lontana. Informato delle condizioni del padre, Marco aveva fatto sapere che sarebbe venuto appena possibile. Nel complesso, Antonio non si lamentava di loro, né della moglie, Giulia, che era stata una compagna affezionata e fedele fino a quando due anni prima l’aveva preceduto nell’Ultimo Viaggio.
Alzò gli occhi verso il soffitto.
“Dio mio, perché?”, si domandò.
Si perché, tanti perché senza risposta. Si vive, si lavora, si soffre, si incontra qualche raro momento di gioia, si fa del proprio meglio per costruire qualcosa che può crollare da un momento all’altro come un castello di sabbia, e che comunque a un certo punto dovremo lasciare, per che cosa? Non era disperazione, non era un recriminare, era solo un vago senso di amarezza, il doversene andare con tanti interrogativi irrisolti.
Durante gli anni del lavoro e della carriera aveva la sensazione e la convinzione di essere diventato una persona importante; se ne era invece reso conto al momento della pensione: era solo uno fra tanti, il che era come dire nulla.
Chiuse gli occhi, non aveva voglia di pensare, eppure avrebbe dovuto saperlo: il flusso dei pensieri non s’interrompe così facilmente, non a comando.
Incongruamente, si ritrovò a ripensare alla carta blu opaca delle sovraccoperte. Quel ricordo ne aveva fatto emergere un altro più vecchio. Ad Antonio era venuto in mente che una carta di colore simile, ovviamente meno spessa, avvolgeva le confezioni di pasta che sua madre acquistava nel negozio di alimentari sotto casa, o come allora si usava dire, “la bottega” per antonomasia. Gli spaghetti, ricordava, erano venduti in confezioni circolari, dei tubi mangerecci. E poi il latte che si vendeva in bottiglie col coperchio di stagnola. C’era quella panna così buona che si formava sotto il coperchio … Qualche volta, non spesso, la mamma comprava anche delle caramelle o delle cioccolatine. Antonio aveva l’impressione di non aver mai più sentito nel corso della sua vita un gusto simile a quelle inenarrabili delizie.
Erano là in un cassetto della sua memoria, non più toccati da decenni ma sempre intatti, vivi i ricordi della sua infanzia.
C’era quel tratto di strada un tempo così familiare che andava da casa fino alla scuola, un plesso dove c’erano sia la scuola materna sia le elementari, e lui le aveva frequentate lì entrambe.
Nella direzione opposta la strada terminava in una piazzetta con un piccolo giardino, niente di speciale, con quattro aiole e due panchine, dove nei pomeriggi dopo lo studio si trovava con altri bambini e ragazzi alcuni più grandi, altri più piccoli di lui, a tirare quattro calci a una palla, saltare, correre, urlare, rientrare a casa per l’ora di cena con le ginocchia sbucciate e qualche livido.
Gli bastava chiudere gli occhi e fare un piccolo sforzo e le rivedeva tutte quelle facce, come erano prima che il trascorrere degli anni e le ingiurie del tempo rendessero le fisionomie irriconoscibili.
Qualcuna di quelle facce, mutata quanto la sua, l’aveva vista sui banchi delle superiori, qualcuna gli era sembrato di intravederla anche dopo nel corso della sua vita adulta e lavorativa, ma dei più non aveva più saputo nulla.
La strada si snodava poi nella direzione opposta, passava di fronte a casa sua e proseguiva attraverso abitazioni e negozi fino alla scuola e al bar del signor Emilio. Il bar era il terminale finale, non nel senso che la strada non andasse oltre, ma nel senso che era posto un poco più in là del cancello del plesso scolastico, ed era lì che la mamma si fermava quando lo accompagnava a scuola, gli prendeva una merendina se non aveva avuto il tempo di preparargli qualcosa a casa, e un caffè per sé, e si soffermava se c'era l'occasione, a scambiare quattro chiacchiere con le altre madri.
Antonio ricordava che dell'assortimento di pasticceria del bar gli piacevano soprattutto le focaccine con l'uva; sotto i denti, il gusto lievemente asprigno degli acini formava un contrasto delizioso con il dolce della pasta. Nei decenni seguenti aveva cercato invano un sapore altrettanto gradevole.
Il signor Emilio, il titolare del bar, era un uomo robusto che, dalla sua prospettiva di bambino, ad Antonio sembrava imponente, era di un'età indefinibile, con gli occhi chiari, i capelli di un castano così chiaro da sembrare quasi biondi e un paio di baffetti biondicci che parevano di stoppa. Era un uomo cordiale, gli piaceva scherzare con le mamme che accompagnavano i bambini a scuola. Se per caso qualcuna di loro tardava a venire a prenderli alla conclusione delle lezioni, i ragazzi sapevano che il bar di Emilio era il punto di riferimento dove trovarsi, e lui con pazienza bonaria teneva d'occhio i monelli schiamazzanti che affollavano il bar verso l'ora di pranzo. Quando qualcuno dei piccoli clienti ordinava un bicchiere di aranciata o qualche altra cosa, spesso Emilio sbagliava a loro favore nel dar loro il resto, e qualche volta offriva lui.
Antonio si ricordò di un giorno che era nevicato, una giornata ormai quasi primaverile; la neve era venuta giù abbondante avvolgendo la città in un'atmosfera magica, ovattata che dava una sensazione di intimità, paradossalmente di calore; bastava essere ben coperti e il freddo proprio non lo si sentiva. Ricordava di aver giocato a palle di neve con altri ragazzi del quartiere, una vera e propria battaglia combattuta con bianchi proiettili. Centrare il bersaglio era una soddisfazione, ma quando era la volta di essere colpiti, non era nulla di tragico, bastava scuotere la neve dal cappotto con la mano guantata, e perfino quando il proiettile arrivava sulla faccia scoperta, quel contato umido e morbido non era poi spiacevole.
Negli anni seguenti non aveva più visto una nevicata come quella, forse perché il clima era cambiato, perché era aumentato lo smog. Cadeva un leggero strato che non faceva in tempo a depositarsi agli angoli delle strade, che era già diventato di uno sporco grigio-marrone-giallastro marcato dallo smog, dall'immondizia, dalla sporcizia impalpabile che aleggiava nell'aria e si respirava tutti i giorni senza accorgersene.
Ora che i ricordi dell'infanzia che credeva di aver dimenticato, o ai quali semplicemente non pensava da moltissimi anni, erano riaffiorati, Antonio si rendeva conto di una cosa che gli era sempre sfuggita o su cui non si era mai soffermato a riflettere: la sua vita era come spezzata in due con un taglio netto; quando stava per iscriversi alla prima media, i suoi avevano traslocato, erano andati ad abitare in un altro quartiere della città. Dopo tanti anni, Antonio non ricordava se l'avevano fatto per qualche necessità o semplicemente per avere una casa più grande o più comoda, ma la cosa non aveva poi molta importanza. Per lui aveva significato una frattura brusca: da una parte il tempo magico dell'infanzia, il Paese Incantato, dall'altra tutta la sua vita successiva, il tempo degli impegni di studio, poi il lavoro, il matrimonio, la carriera, i figli, la responsabilità.
Antonio dalla sua posizione distesa non riusciva a vedere la finestra che dava luce alla stanza, ma ebbe l'impressione che nevicasse; forse qualcosa come un cambiamento nella qualità della luce.
Cercò di sollevarsi per guardare il vano della finestra. Dapprima non gli riuscì, qualsiasi piccolo sforzo pareva una richiesta eccessiva per il suo povero corpo usurato dagli anni e dalla malattia, poi quasi di colpo si accorse di avercela fatta: si ritrovò seduto sul letto a fissare oltre i vetri, là fuori dove la neve scendeva a fitti bioccoli. Strano, gli venne da pensare, eppure si era in maggio anche se naturalmente poteva sbagliarsi, e maggio, se ricordava bene, era un mese in cui non nevicava, non alle latitudini italiane e al livello del mare.
Rimase ammirato a guardare i fiocchi che si depositavano al suolo formando strati che si sovrapponevano uno sull'altro. Era dall'infanzia che non ricordava una nevicata del genere. Non riusciva a capire: ci sarebbero dovute volere ore perché la neve raggiungesse una simile altezza, forse giorni, invece tutto era cominciato e finito in pochi minuti. Ora oltre i vetri si scorgeva uno strato compatto di neve che si stendeva a perdita d'occhio, giusto all'altezza del suo davanzale, eppure pareva di ricordare ad Antonio che l'appartamento non si trovava al pianterreno ma diversi piani più in su, e se era così, allora la città doveva essere sommersa sotto uno spessore da età glaciale.
Per alcuni minuti rimase a fissare quella superficie candida indeciso sul da farsi. I dolori e il senso di stanchezza plumbeo che l'avevano perseguitato per tutti quei giorni, sembravano scomparsi. Quel mondo ovattato, bianco, luminoso oltre la finestra pareva esercitare un'attrazione irresistibile. Si trovò fuori all'aperto quasi senza accorgersene, doveva aver scavalcato la finestra senza pensarci; la cosa strana era che il vetro era chiuso e lui proprio non ricordava di averlo aperto. Mosse alcuni passi in avanti aspettandosi di sprofondare nello strato nevoso, invece sembrava offrire un appoggio abbastanza consistente.
Come quella dei ricordi della sua infanzia, quella neve pareva trasmettere incongruamente una sensazione di tepore. Antonio toccò con la mano un monticello lì vicino: non era affatto fredda, era anzi vagamente tiepida.
Respirò a fondo: si sentiva meglio, molto meglio di quanto non si fosse sentito negli ultimi tempi.
Si avviò a rapidi passi nella neve; era vestito leggero ma non provava freddo, anzi gli sembrava di essere avvolto da un bozzolo di gradevole tepore. Quanto tempo era che non riusciva più a muoversi con quella scioltezza e quella elasticità di passo giovanili? Molto tempo, senza dubbio troppo.
Scorse delle figure davanti a sé, figure umane, e notò un'altra cosa strana: da come si muovevano, dovevano essere a livello del piano stradale, e questo lo sorprese, perché nell'ipotesi che una bufera di neve si fosse ammucchiata sopra casa sua fino all'altezza del suo appartamento situato al quarto o quinto piano (non ricordava bene), per raggiungere il livello stradale avrebbe dovuto scendere, invece aveva l'impressione di procedere in salita, una dolce, leggera salita per nulla faticosa, ma salita.
Avvicinandosi, Antonio poté vedere meglio le figure davanti a lui, erano bambini che si davano battaglia a colpi di palle di neve.
Mentre si stava avvicinando, una palla lo colpì in pieno petto. Affondandovi le dita per scuotersela di dosso, Antonio sentì che non era né fredda né umida, pareva una via di mezzo fra cotone e panna montata.
Preso da un improvviso impulso, raccolse un grumo di neve, lo compresse leggermente fra le mani per farne una palla, e la lanciò contro il ragazzo che l'aveva colpito. Ne ricevette altre due in risposta. Ben presto si trovò coinvolto in una gazzarra di monelli. Fu colpito più volte e rispose scagliando palle in tutte le direzioni. Erano decenni che non si divertiva a quel modo. La cosa che più lo stupì, fu che quei ragazzini avevano preso subito a trattarlo come uno di loro, sebbene non avesse più per nulla l'aspetto di un ragazzo: era un uomo maturo, un anziano, un vecchio – era il caso di dirlo – .
Poi, sempre battagliando con la riserva di bianchi proiettili disseminata dappertutto, guardò meglio i suoi avversari e rimase per un istante senza fiato. Avrebbe giurato di riconoscere i lineamenti immutati nel tempo dei suoi antichi compagni di giochi. Sforzandosi, gli parve di riuscire a collegare ad alcune facce qualche nome, ma di quello era meno sicuro. Ciò di cui si sentiva sicuro, invece, era che qualche strano miracolo gli aveva permesso di ritrovare il Paese Incantato dell'infanzia.
La strada sulla quale ora si trovava, a parte la superficie innevata e i grossi cumuli negli angoli riparati, gli sembrava proprio la stessa dove aveva trascorso quei primi anni meravigliosi, ma questo non l'aveva preparato alla sorpresa che arrivò poco dopo, colpendolo con inaspettata intensità. Il bar, il bar all'angolo dove da bambino si fermava prima e dopo la scuola, era lì proprio davanti a lui.
Con il cuore che gli batteva forte, fece ancora pochi metri, spinse la maniglia ed entrò.
Dentro, l'accolse un profumo di caffè, di dolciumi, di brioches appena sfornate, proprio come tanto tempo prima.
Quasi senza meraviglia, osservò l'uomo dietro il bancone: il signor Emilio identico a come lo ricordava sessanta o settanta anni prima.
“Antonio!”
“Emilio!”
L'uomo uscì da dietro il bancone e lo abbracciò: un abbraccio forte, di quelli che arrivavano fin dentro l'anima e la scaldavano.
“Quanto tempo, incredibile!”
“Posso offrirti qualcosa?”, chiese Emilio.
“Hai ancora quelle buonissime focaccine d'uva?”
“Certo, come no, calde calde appena sfornate”.
“Allora”, chiese Antonio, “Una focaccina e un caffè”.
La focaccia, che Antonio mangiò lentamente assaporandone ogni briciola, era la più gustosa che avesse mai assaggiato, e anche il caffè aveva un aroma intenso, corposo, squisito.
Fece per mettere mano alla tasca posteriore per prendere il portafogli, ma Emilio lo fermò con un gesto brusco.
“No, Antonio, mi offendi. Offre la ditta”.
Accompagnato da Emilio, Antonio riguadagnò di nuovo la porta del bar che si affacciava sulla strada; era una via che Antonio conosceva bene: da una parte c'erano la scuola, svariate botteghe e negozi, le case di diversi dei suoi amici, casa sua, e alla fine dove il percorso cessava sbarrato dai muri delle case che si addossavano le une alle altre, la piazzetta dove andava a giocare a pallone coi suoi amici. Dall'altra parte, invece, una doppia fila di abitazioni e negozi che non erano legati ai suoi ricordi personali.
“Sai”, disse a Emilio, “quando ero bambino, il tuo bar vicino alla scuola per me era sempre il termine ultimo delle mie escursioni, accompagnato da mia madre o anche da solo. Ho sempre desiderato andare oltre a vedere cosa c'è, ma ne ho avuto anche un po' paura”.
“Prima o poi”, rispose Emilio con aria pensosa, “tutti devono andare oltre, e ora è arrivato il tuo momento, ma ti confiderò un segreto: tu non hai nessun motivo di temere quello che c'è oltre”.
Si strinsero la mano in un ultimo caloroso saluto, poi Antonio si avviò. Fatti pochi passi, la strada svaniva, c'era solo il biancore di quella neve tiepida che dava un meraviglioso senso di intimità e di protezione, e la luce riflessa da quel bianco nitido che la rendeva nello stesso tempo morbida e intensa.
Man mano che avanzava, la luce cresceva d'intensità.
Appena rientrata a casa, Manuela andò a vedere come stava suo padre. L'uomo aveva gli occhi chiusi e pareva dormisse, ma la figlia si accorse che non c'erano più né respiro né polso. Sapeva che ad Antonio non restava molto da vivere, ma era un rammarico atroce non essere stata lì al momento del trapasso, quando aveva sperato di potergli essere vicina.
Suo padre però – notò – non doveva aver sofferto, doveva essersene andato nel sonno, discreto e gentile come era stato tutta la vita.
Sul suo volto aleggiava ancora un sorriso, sembrava essersi spento con grande serenità e dolcezza.
Piangendo, alzò il lembo del lenzuolo a coprirgli il volto.



martedì 18 febbraio 2014

IL SOGNO SULLA DIGA di Jean-Pierre Planque



Quando ho visto il grande cartello annunciante il Campo di Maggio, ho subito rallentato. Spingevo a 110 e dovevo avere un tasso di gammaglobuline intorno a 280... Tenevo bene la strada e avevo allacciato la cintura. Ho viaggiato ancora a 80 fino a Huit, dove ho comprato una bottiglia di rhum Damoiseau. Sai, quella merda della Guadalupa che rende o zombie o sobrio per sempre, quella bevanda che ho giurato di non bere più e che bevo, invece, quando mi assale la tristezza...
Ho pagato alla cassa. Sempre la stessa cassiera, piccolina, indiana, con una cicatrice tra i seni. Un giorno che apparivo stupito, ella mi ha detto: «Sono stata operata alla tiroide...» Avevo riso. Sì, la nube di Cernobyl, mi è stato detto, quella che passò sul sud della Francia prima di arrestarsi alle frontiere. Aveva anche attraversato l'oceano? La nube, il cibo cattivo e tutte quelle porcherie che mangiamo...
Ho lasciato cadere sul pavimento la bottiglia di rhum con un: «Oh, scusatemi...» Poi sono uscito dal negozio.
La mia auto mi aspettava. Ho guidato verso Pointe-à-Pitre. Dopo? Non lo so. Ero seduto sulla diga del molo, di fronte all'oceano. Ho sognato di un aeroporto dove una donna mi attendeva. Io l'amavo, e anche lei mi amava. Avevo desiderato stringerla a me, ma era impossibile.
Una voce ufficiale ha detto:
- Siete pregato di passare sulla fila di sinistra, signor P.  Voi non siete più vivo!
Ho guardato l'orologio che mio figlio Luciano mi aveva donato poco prima della mia partenza. Le lancette erano sparite, il quadrante era bianco. Allora, credo di aver compreso...

(Traduzione dal francese di Paolo Secondini)

domenica 16 febbraio 2014

IL SOGNO di Massimo Licari



Il suono insistente della sveglia interrompe un sogno confuso. La testa annebbiata e la bocca secca mi fanno pensare che probabilmente ero parecchio agitato, ma non so: non sono rimasti nemmeno piccoli frammenti delle immagini che hanno riempito la mente negli istanti che hanno preceduto il momento in cui ho faticosamente aperto gli occhi.
Meccanicamente compio i riti mattutini: bagno, barba, doccia, caffè. Un giorno come un altro. Forse è martedì, o mercoledì, ma in questo momento non mi interessa: non farebbe alcuna differenza. Lo scoprirò quando mi metterò in macchina, tra pochi minuti, per raggiungere il mio ufficio a Milano, e ascolterò il notiziario, parte anch'esso della consuetudine che scandisce le mie giornate da qualche anno ormai.
Da quando Isabella mi ha lasciato per un suo collega, secondo lei molto più simpatico e vitale di me, la mia vita è lentamente scivolata nella banalità del quotidiano.
Forse aveva ragione: non mi sono reso conto di essere diventato un guscio vuoto, un parassita che sopravvive solo grazie alla vita degli altri.
Senza lei ogni cosa ha perso senso, se ne aveva davvero. Perché in questo inarrestabile declino ho cominciato a pensare che il senso e la voglia di vivere che sentivo dentro di me erano suoi.
Piangermi addosso, ecco quello che riesco a fare sempre molto bene.
Esco da casa con la consapevolezza di aver cominciato questa giornata nel peggior modo possibile.
Accendo la macchina e la radio. Sentire qualcuno che parla mi aiuterà a non pensare.
Percorro due o trecento metri prima di rendermi conto che la radio è silenziosa. Provo a premere il tasto 1 di preselezione. Dovrebbe essere memorizzato il giornale radio, ma non sento nulla.
Provo a cercare attraverso le frequenze una qualche voce, ma non ottengo nulla.
È proprio una giornata schifosa. Anche la radio ha deciso di abbandonarmi.
Dovrò rassegnarmi a restare in compagnia di me stesso, non una gran bella compagnia, ma non posso fare altro.
Se non altro, la strada sembra libera.
Dopo cinque chilometri sento un leggero prurito alla base della nuca. C'è qualcosa che mi dà fastidio, ma non riesco a focalizzare di che si tratta.
Poi, come una lampada che squarcia il buio, mi rendo conto di cos'è: non ho incrociato nemmeno un'auto. Mi guardo intorno incredulo. Nessuno dietro, nessuno che percorre in senso contrario la statale che normalmente la mattina è affollata peggio dell'Autosole in agosto. Ho sbagliato l'ora?
L'orologio della mia Ford mi informa che sono le otto e la luce del sole conferma che si tratta del mattino.
Controllo per sicurezza anche quello che ho al polso, ottenendo la stessa informazione.
Che succede?
Vuoi vedere che è domenica?
No, dai, non posso essere così stupido da essere uscito alla solita ora anche di domenica.
Ma poi rammento che ieri era sicuramente lunedì. In ufficio abbiamo fatto la solita noiosa e inutile riunione di inizio settimana e ieri sera ho visto la trasmissione che La 7 trasmette solo di lunedì.
E allora, che cos'è che non va questa mattina?
Non so perché, ma un brivido percorre velocemente la spina dorsale.
Continuo imperterrito nel tragitto verso Milano, ma la sensazione di essere l'unico a fare questa strada comincia a trasformarsi in inquietudine.
Arrivo alle porte di Milano senza aver incrociato anima viva.
Entro in città e le cose non cambiano: nessun essere vivente sembra condividere con me questa latitudine.
Potrei bearmi di avere a disposizione tutto lo spazio che voglio, ma sento che c’è qualcosa di profondamente innaturale attraversando la città vuota.
Le automobili sono parcheggiate ai lati delle strade e non ci sono cumuli di rovine o segnali di abbandono. Posso scartare, con un sospiro di sollievo, i foschi scenari di "io sono leggenda" che cominciavano a tornare insistentemente alla mente. Nessun virus sembra aver sterminato l'umanità, e non ci sono creature che devastano quanto la civiltà si è lasciata alle spalle in cerca di cibo.
Però non c'è nessuno.
E se la radio che frettolosamente avevo pensato rotta non fosse che un altro segno dell'abbandono in cui sembra essere precipitata la città?
Ma cos'è successo?
Trasgredendo la routine quotidiana, decido di accostare a destra. Più avanti c'è un bar.
Lascio la macchina in seconda fila. Istintivamente metto le doppie frecce, anche se non c'è altro che solitudine intorno a me.
Entro nel bar. La porta è aperta, ma non c'è nessuno a raccogliere la mia ordinazione e nessun altro che consuma qualcosa.
Non ci sono brioche calde ad accogliere i clienti. È tutto in ordine. La macchina del caffè è calda e bicchieri e tazzine sono al loro posto. Ma non ci sono avventori pronti a consumare e nemmeno baristi pronti a servire.
Il senso di angoscia cresce.
Esco dal bar e invece di andare alla macchina mi metto in mezzo alla carreggiata, ma non ci sono automobili che possano investirmi.
Come un pazzo - ma del resto come potrei sentirmi in una situazione simile? - comincio a urlare "Aiuto! Aiuto!".
Nessuno accoglie le mie invocazioni. Nessuno si affaccia alla finestra per sbirciare chi osa rompere il silenzio tombale in cui è precipitata la città.
Come un ragazzino di dieci anni in vena di scherzare, mi avvento su un citofono e comincio a premere tasti a caso.
Il silenzio è tale da consentirmi di sentire lo squillo vigoroso dei diversi campanelli che ho premuto.
Nessuna protesta o imprecazione rompe la cappa silenziosa, sempre più opprimente.
Corro alla macchina e mi avvio velocemente verso l'ufficio.
Forse lì mi aspetta qualche risposta.
I pochi chilometri che mi separano dal centro direzionale che ospita gli uffici dell'azienda ove lavoro, li percorro a ottanta chilometri all'ora: impensabile anche alle tre del mattino.
L'ufficio, buio e silenzioso, mi trasmette la stessa sensazione strana che ho provato qualche mese fa quando, per smaltire un arretrato che rischiava di diventare incolmabile, ho lavorato di domenica. Ma oggi non è domenica e, comunque, anche se lo fosse, non si spiegherebbe il deserto fuori di qui.
Domenica, giorno dedicato a Dio, in cui le persone si ricordano di avere una parte spirituale di cui prendersi cura partecipando a qualche funzione religiosa.
Seguendo questo pensiero lascio l'ufficio, che non ha risposte per me, e torno in strada.
Qui vicino so che c'è una grande chiesa.
La raggiungo e ascolto affascinato il silenzio assoluto che l'avvolge e la riempie.
Sembra che sia l'unico abitante rimasto in città.
Forse questo è un sogno, un incubo dal quale spero di uscire presto.
Sapessi come fare...
Si, tra poco la sveglia suonerà e mi risveglierò.
Non c'è altro da fare che aspettare che la mente decida di proiettarmi in un’altra realtà onirica o che decida di averne abbastanza consentendomi di tornare allo stato di veglia.
Mi siedo lì, ai piedi della grande chiesa, e comincio ad aspettare.
Sono prigioniero della mia mente... incredibile.
Resto così, a fissare il vuoto per un tempo indeterminato.
Poi un pensiero fastidioso prende corpo: e se tutto questo non fosse un sogno?

venerdì 14 febbraio 2014

UNO SCARABEO BUGIARDO di Héctor Ranea



Nel numero tre de “Il Giovane Curioso”, una raccolta mensile per bambini con esperimenti di scienze varie adatti da fare in casa, trovai la spiegazione per preservare gli esemplari di insetti. Il metodo mi affascinò e catturò tutta la mia attenzione, al punto che un amico dovette aiutarmi a fare i compiti di scuola, per non provare vergogna di fronte alla signorina Fisher, una bella bionda di cui ero perdutamente innamorato, anche se meno che della scienza che avevo appena scoperto. Ossia, non volevo deludere la mia maestra, ma nemmeno potevo abbandonare i miei insetti morti. In conclusione, il mio amico mi aiutava con i disegni e i temi di argomento storico e io mi arrangiavo con aritmetica e scienze e con le composizioni letterarie; per queste ultime ho sempre trovato il tempo, soprattutto per le poesie d’amore, che mettevo con discrezione nel registro di classe, perché lei le vedesse.
Mi concentrai sul preservare gli animaletti, chiaramente senza vita, sotto cherosene, alcol, aceto bianco, e altri intrugli che qualche volta inventavo io stesso e che scarso servizio fecero alla scienza della preservazione, sebbene qualche sorpresa la procurarono a me, senza dubbio. In queste divagazioni tra l’amore per la mia maestra e quello per la conservazione degli insetti, mi sembrò che collezionarli come capitava non avesse niente di elegante, per cui decisi di tenere solo quegli insetti che più assomigliavano, almeno nella mia mente infantile, alle pietre preziose: i coleotteri.
Trascorsero lunghe settimane invernali, nelle quali era più difficile trovarne uno che scrivere qualche strofa storica secondo i gusti della signorina Fisher, ma mi ingegnai per ottenere almeno l’intruglio che meglio conservava l’esemplare, non solo in quanto alla sua integrità generale, ma anche per il colore, la lucentezza e le macchie iridescenti (così le chiamavo io, emulando un naturalista) che davano all’insetto quell’aspetto roccioso di cui avevo bisogno per sentirmi soddisfatto. Ora non sarei in grado di riprodurre quale miscela avevo provato. Sicuramente qualcosa con acquaragia, trementina o cose simili; è anche probabile che sia stato il liquido che usava mio padre per gli accendini, la benzina.
Quando ebbi una decina di questi esemplari li mostrai alla mia famiglia, ma la reazione non fu troppo omogenea. Mio padre, per esempio, dedusse il motivo per cui spendeva tanto denaro per le sue sigarette; mia madre sospettò per quale ragione i miei voti scolastici erano stati tanto brutti quell’anno; mia nonna ritenne che stessi facendo qualcosa contro natura, giacché le bestie devono continuare a essere bestie anche dopo morte e non diventare parte di un’esibizione oscena della morte. Preferisco tacere quello che dissero i miei cugini e le mie cugine, non sarebbe giusto verso di loro, né verso la memoria della persona che fui.
Infine mi incuriosì che mio zio, un uomo che aveva viaggiato in molte parti del mondo, li osservasse con attenzione, così tanta che mi prese la paura irrazionale che volesse rubarmi la collezione, da tanto interesse che c’era nel suo sguardo. Alla fine arrivò al pezzo che io consideravo il migliore e disse:
– Questo qui lo conosco bene, si chiama Compsocerus Violaceus, viene detto il chitarrista.
Lo descrivo: le elitre di colore verde, ma non il verde ordinario di una mantide religiosa o della foglia nuova del limone, ma nemmeno del grano verde o del verde che hanno le foglie dei piselli o le bucce di mais, ma un verde iridescente, un verde che non c’è nell’arcobaleno, forse - ma la memoria può fare miracoli - il verde degli occhi della maestra Fisher, mia amata immortale.
Il tutto in un corpo rosso: zampe rosse, addome rosso, collo rosso, testa rossa. Tanto rosso da sembrare un demone da operetta, uno di quei diavoli da banda o da farsa creola, ma con questo mantello verde che lo faceva assomigliare un vescovo infernale, un monaco di alto lignaggio, un nobile angelico.
In più - e quella era la dimostrazione della sua natura incredibile - aveva anche due antenne nere con riflessi rossicci, con due pompon neri che avevano l’aspetto di germogli di menta, ma fatti di puro carbone. L’insetto, della lunghezza del pollice di un adulto, era un gioiello galleggiante. Una gemma fatta delle sostanze della terra, delle unghie dei morti, come arrivò a dire mia nonna prima di cadere in una letargia che tutti interpretarono come un’insolazione, ma che presentava alcuni aspetti infernali che è meglio non elencare per non spaventare i potenziali lettori.
Forse devo chiarire, che a quell’epoca non avevo la minima idea della maggior parte delle parole che adesso, trascorso tanto tempo, sì posso usare con proprietà; cosicché il mio stupore si manifestava
con espressioni verbali e gesti piuttosto che le parole, e questo, sfortunatamente, mi fu di impiccio, perché i miei genitori considerarono che tale attività, l’unica cosa che mi aveva procurato era stato rendermi più stupido di quel che aveva conseguito la mia stessa nascita, per cui mi allontanarono da ogni contatto con i miei tesori, incluso i diciassette numeri che, non ricordo come, avevo comprato de Il Giovane Curioso. Tuttavia questo non mi distolse dagli insetti, meno che mai dai coleotteri, a cui facevo visita nelle mie frequenti serate sopra all’albero di limone, fuori portata dalla vista di mia nonna, l’incaricata di far sì che la mia espiazione fosse effettiva e la condanna di reale compimento. Era la legge e la legge, in casa, doveva compiersi a qualunque costo.
Sopra al limone mi sentivo una scimmia diversa dalle altre e, vestito con una maglietta verde a righe e un pantalone scuro come le foglie vecchie di limone, gli occhi della nonna non mi distinguevano e io potevo raccogliere alcuni dei miei migliori coleotteri che, purtroppo, dovevo poi lasciare poiché non li potevo conservare, motivo per cui non volevo ucciderli, nonostante portassi sempre con me lo spillo per il colpo finale. Dalla cima dell’albero, devo dire, potevo misurare bene le farfalle del limone, che venivano soprattutto a prendere il nettare prima delle api e delle vespe rosse. Ma la mia sorpresa non fu tanto di trovare di nuovo un chitarrista, quanto che egli mi parlasse. Questo fatto mi sembrò che non fosse esposto in nessuno dei numeri che avevo letto del mio inserto scientifico (per allora ne avevo già letti ventitré) e di primo acchito lo mollai di colpo, però siccome è un volatile, si fermò accanto a me e mi disse:
– Vedo che ti interessi dei miei simili, ragazzo.
– Gli scarabei non parlano, signore – dissi, con un certo candore ora che ci penso. – Lei mi confonde.
– No, ragazzo. Chi si confonde sei tu. Non sono un coleottero, sono un visitatore. E te lo metto in chiaro, non siamo fatti delle merde di cui è fatto il tuo pianeta. Siamo di leghe molto specifiche, progettate per poter percorrere le distanze che separano i pianeti che conquistiamo dal nostro, senza soffrire danni. Di più, ti dico, il fratello che tieni nella benzina è vivo.
– Non posso liberarlo, se è questo che vuoi.
– In realtà, prima o poi, si libererà da solo, ma non sono venuto a reclamare per lui. Vorrei fare un patto con te. Però dovrai lasciare che mi metta nelle tue costole.
Sentii un dolore intenso, sebbene il chitarrista ancora non avesse nemmeno fatto cenno di entrare in me. Di fatto, mi stava chiedendo il permesso, ma solo pensare alle sue mandibole multiple mi fece soffrire e indietreggiare.
Non avrei dovuto farlo. Nel farlo, caddi dall’albero e la caduta fece sì che si svegliasse mio nonno, che avevano messo di guardia alle mie attività. Lui svegliò mia nonna, che mi rincorse per un bel po’ con la scopa nel cortile e non le importò di tirare giù due piante di mais e quattro di fagiolini che erano già sul punto di maturare. Castigo divino, gridava, o qualcosa del genere. Dato che non mi raggiunse, riuscii a sgattaiolare nel cortile del mio amico che mi aiutava con i compiti, saltando il muro, cosa che svegliò in malo modo le pavoncelle, però sfuggii a mia nonna e fu preferibile sopportare l’attacco dei volatili che la scopa familiare del castigo eterno.
In ogni caso, anche il chitarrista mi raggiunse, senza difficoltà e tornò alla sua richiesta originale, dopo che mi fui sistemato i vestiti.
– E perché vuoi – già gli davo del tu – metterti tra le mie costole?
– Ti potrò tenere in vita per molti anni in più, ragazzo. Vivrai il tempo che vorrai. A me conviene avere un aspetto più umano, perché in questo modo – sembrò indicare se stesso ­ – mi perseguitano abbastanza facendomi perdere un bel po’ di tempo.
Pur sapendo che stavo tradendo la mia specie, nello spasmo emotivo provocato dalla fuga annuii e in maniera indolore, il chitarrista si mise tra la quarta e la quinta costola del lato destro. Vicino al fegato, suppongo. Siccome ogni tanto usciva, non mi dava fastidio tutto il tempo. Fu così che arrivai fino ad ora con questo aspetto, ma non ottenni che stringessero lo stesso patto con la maestra Fisher, per cui potei vederla invecchiare, morire, al pari dei miei fratelli, i miei cugini, i loro figli e tutti i conoscenti, per varie generazioni. Non chiedetemi i dettagli perché li ho persi. Con i tanti viaggi che ho fatto da allora, non ho idea della maggior parte dei discendenti di quella stirpe.
Il coleottero chitarrista mi portò in varie parti di questo mondo e di altri. In alcuni eravamo soltanto insetti, in altri lunghe code di alghe zuccherine che galleggiavano nel metano fosforescente, o meduse di roccia porosa, o quadrupedi con coscienza. Anche umani, perfino con velleità di poeti, o militari con l’illusione di essere strateghi. Divenni anche un pezzo di scacchi molteplici in un pianeta abbastanza tiepido che ruotava attorno a una stella, in quella che conosciamo come costellazione della lucertola. Qualcosa di eccezionale, se si vuole, dico, essere un pezzo inanimato. Però, in questo, il rosso amico mi accompagnò al cento per cento. Non mi lasciò mai morire, né essere ucciso da niente, ma continuo a non capire lo scopo della mia vita quasi eterna. Di più, non so nemmeno se ho fatto un buon affare.
Mi spiego: non fu gratis. Sapere che vivrai quasi per sempre non è necessariamente piacevole, soprattutto se sei nato negli anni cinquanta, quando la gente muore di vecchiaia a sessant’anni, e se hai otto anni. È una sensazione molto forte, ma non necessariamente buona, perché ogni cosa sembra semplice, possibile, e non si è invogliati a farla in fretta. Ovvio. Dall’altra parte c’era il coleottero, che pungeva, insisteva, rompeva le scatole allo sfinimento.
Quando arrivai ai diciassette anni volli fare visita alla mia vecchia maestra, ma il mio coleottero non me lo permise. Dovevamo fare ricerche da altre parti e mi portò, convertito in uno di loro, in una civiltà completamente diversa. Io, un semplice adolescente, ad analizzare una cultura così diversa che non si potrebbe distinguere da un formicaio confrontato con ciò che sembravamo. L’animaletto che portavo addosso cercava qualcosa, che mi sembrò avesse dei tratti in comune con me: un bambino curioso. È quello che facevano in ogni luogo. Credevano che qualcuno avesse qualcosa di differente e lo cooptavano per se stessi. Questo sì, mancava ancora il peggio.
Gli anni dell’università li passai quasi senza soprassalti e il chitarrista mi aiutava in alcune cose, soprattutto nel suonare la chitarra, di modo che ebbi sempre qualcosa da fare nelle feste, oltre che ricordare la signorina Fisher e trovarle una qualche sostituta. Il peggio, dicevo, venne quando terminai.
Rinchiusero tutti quelli che avevano raccolto in un luogo molto segreto, blindato, per studiare. Non sapevamo bene che cosa, però c’era da studiare. In quegli anni compresi perché mio zio conosceva il nome dell’insetto conservato nella benzina. Lui era uno di noi.
Non ci misi un’eternità a rendermene conto, ovvio. Lo sospettai quando fui in età di abbandonare l’infanzia, ma ne ebbi la verifica diretta durante il viaggio verso un pianeta molto più vicino al centro della galassia che il nostro. Lì lo riconobbi per la sua maniera di assumere i costumi degli abitanti studiati per apprendere le conoscenze che avevano del tempo.
– Ti sei reso conto di quel che stanno cercando, no? – mi disse in modo che solo io potessi ascoltarlo. – Il tempo.
Mi venne un brivido, soprattutto perché capii che era lui. Non poteva essere un altro. Sotto la pelle di questi esseri, c’era il viaggiatore.
– Che ci fai qui? – gli dissi quando mi ripresi.
– Ti dispiace? Probabilmente lo stesso che fai tu. Ma te ne sei reso conto o no, nipote? Il chitarrista non c’è, puoi parlare tranquillamente.
– Non ho capito per quale ragione lo fanno, ma l’argomento di cui discutono è il tempo.
– Sì; ma non cercano qualunque cosa sul tempo. Sulla Terra abbiamo passato secoli a fare ricerche sul tempo, ma questi cercano un’altra cosa, qualcosa di più fondamentale. Cercano la macchina che li faccia viaggiare nel tempo, nipote. Ecco cosa cercano.
Restai senza parole. Dominavano la vita e la morte, ma il coleottero bugiardo voleva qualcosa di più. Voleva essere padrone del tempo e poter viaggiare dove nemmeno le sue doti di sospensione della morte lo potevano portare.
– È vero – confessò il coleottero rosso dietro di noi. – Abbiamo bisogno del tempo per vedere come sono gli universi paralleli, come fu il passato e come sarà il futuro. Ma, dal tempo che abbiamo impiegato a cercare, direi che nessuno ha ottenuto nulla. Solo pochi progressi, ma in sostanza nulla. Forse è una ricerca inutile.
– O forse quelli che ci sono riusciti non sono capaci di tornare o non vogliono farlo. Forse si sono resi conto di ciò che hanno commesso – diceva mio zio – e hanno paura di tornare nel loro tempo a vedere il disastro che hanno provocato con la loro invenzione. Non hanno la soluzione ai loro problemi, e nemmeno riescono a far sì che i loro prigionieri, noi, otteniamo un qualche risultato con questo. Il tempo si nega, gli altri universi sono sigillati, completamente sigillati. Bisogna rassegnarsi, è sigillato anche il nostro, signor chitarrista, non è un buon momento per apprenderlo, è evidente.
– Per me saperlo o no è lo stesso. La macchina del tempo può esistere come no, nel presente o nel futuro. Continuerò a cercare, ma sarebbe più salutare per voi – aggiunse l’insetto – che manteniate interesse nella ricerca, perché questo è l’obiettivo.
Riflettei su questo per tutto il viaggio di ritorno.
Che cosa sarebbe accaduto se qualcuno avesse scoperto come viaggiare nel tempo, dopo tutto? Io ritornavo sulla Terra dopo secoli, senza esagerare; era questo viaggiare nel tempo? Era lo stesso universo? Forse le leggi della fisica erano le stesse, ma le condizioni di sviluppo, no.  Forse nell’universo nel quale saremmo arrivati non ci sarebbero state le stesse guerre, gli stessi personaggi importanti, forse era stata evitata una peste nell’universo che avevo lasciato, e saremmo arrivati in un altro nel quale la peste si era propagata senza freno, lasciando tutto desolato per decenni e già nessuno avrebbe ricordato, o nessuno, nemmeno noi, avrebbe potuto sapere se il tempo era trascorso in modo omogeneo.
Quando arrivammo chiesi al coleottero che mi abbandonasse, che mi lasciasse essere mortale, volevo smettere questa ricerca inutile che mi aveva portato tanto lontano dal mio albero di limone, le pavoncelle del mio amico vicino, gli occhi celesti della mia maestra e il tanfo della mia collezione di insetti morti.
– Abbandonato al tempo, alla vecchiaia, all’oblio? – rispose alla mia richiesta.
– Sono deciso a vivere quello che mi resta fino alla morte – gli dissi senza smettere di guardare i pompon sulle sue antenne.
– Ti abbandono e muori in pochi anni, ti avviso.
La vecchiaia non è una montagna di tempo, ma uno stato di abbandono. La memoria è un insieme di circuiti che marciranno in poco tempo. Nessuno si ricorda di te, sono tutti cenere e presto non ricorderai nessuno. Sei sicuro?
Non ero mai stato tanto sicuro come in quell’istante, quindi il coleottero mi lasciò.
In quel momento vidi un albero di magnolia, dove tre begli esemplari di coleotteri con colori eccezionalmente belli e antenne con pompon rossi formavano un leggiadro triangolo. Ne presi uno con attenzione. Lo misi in un barattolo per conservarlo. Dovevo chiedere allo zio che tipo di coleottero è così rosso che sembra un diavolo di operetta, con uno scudo verde tanto grazioso.
(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)